Scilla

 

 

 

Della mitologica Scilla ci tramadano sia Virgilio nell’ Eneide, I, VII- che Ovidio nelle Metamorfosi, XIII, XIV che Igino nelle Favole, CXCIX

Scilla era figlia di Tifone e di Echidna. Era una Ninfa bellissima che viveva sulla estrema sponda della Sicilia in quel sito che si chiama Peloro.

 Nelle Metamorfosi Ovidio racconta la tragica storia dell'amore di Glauco per la bella Scilla.
Glauco era un pescatore della Beozia, forse il figlio di Poseidone, il dio del mare. V
enne ad abitare  a Capo Peloro, proveniente dalla Beozia.
Costruitasi una barca con legno di pino, dopo averla dipinta di verde e di azzurro, si mise a fare il mestiere di pescatore con buoni risultati. Egli tratteneva per se quanto gli bastava e il resto del pescato lo dava ai suoi amici. Glauco era un bel ragazzo dagli occhi azzurri e dai capelli biondo rame lunghi e fluenti. Le nereidi Tetide, Anfitride, Panope e Galatea, in compagnia di sirenette e ninfe, venivano nei pressi di Capo Peloro per conoscerlo e parlargli. Glauco, giocava e scherzava con tutte, ma non mostrova interesse per alcuna. Un giorno passò da quelle parti Scilla, figlia bellissima di Forco. Quando la ragazza vide Glauco, se ne innamorò perdutamente, ma non osò manifestarsi, accontentandosi di guardarlo e aspettarlo. Glauco le sorrideva con simpatia e affetto e Scilla si infiamava sempre più di passione. Un giorno giunse in quei  luoghi la maga Circe, sempre pronta ad innamorarsi di qualcuno, divenne amica di Scilla. Le due spesso andavano a fare il bagno nei laghetti o passeggiare lungo le spiagge. Un giorno Scilla raccontò del suo amore per Glauco, sperando, forse, che la maga potesse aiutarla. Circe chiese di conoscerlo e per questo Scilla la portò sulla spiaggia all'alba, quando Glauco si preparava per andare a pescare.
Quando la maga vide il giovane ne restò colpita e si innamorò di lui a tal punto che disse a Scilla di cercarsi un altro uomo, perché Glauco faceva al caso suo.
Scilla si sentì morire e supplicò più volte la maga. Alle insistenza di Scilla, Circe si indispose talmente da avvelenare le acque dove la ragazza faceva il bagno e da colpirla con una bacchetta magica su una spalla trasformandola in mostro.

Secondo un’altra versione Scilla era una fanciulla bellissima e corteggiata che, però, respingeva ogni suo pretendente. Appena Glauco la vide, mentre si rinfrescava in una caletta d'acqua, se ne innamorò, ma Scilla fuggì rifiutandolo, come aveva fatto con gli altri. Glauco chiese aiuto alla maga Circe affinché preparasse un filtro d'amore per conquistare la bella fanciulla. Ma la maga, si invaghì di lui e, vistasi rifiutata, decise di vendicarsi su Scilla. Con erbe malefiche preparò una pozione e recitò un sortilegio con cui infettò le acque della caletta dove la giovane era solita riposarsi.

Conclusione comune delle due versioni quando Scilla si immerse nelle acque si trasformò in un orribile mostro con sei teste e cani latranti che le spuntavano dai fianchi con bocche dotate ciascuna di una triplice fila di denti. Per l'orrore che ebbe di se stessa, Scilla si precipitò in mare e si nascose in uno scoglio di fronte all'antro dove dimorava l'altro mostro marino Cariddi. Condannata a vivere in quell'antro, da quel giorno Scilla sporgeva le sue teste per  terrorizzare ed uccidere i naviganti che di lì transitavano o per rapirli quando le si avvicinavano. Glauco disperato per il destino dell'amata fuggì, ma si rifiutò di unirsi a Circe che si era così crudelmente vendicata della fanciulla, sua inconsapevole rivale.  

E questi i versi di Ovidio

 

Metamorfosi XIII-XIV

Glauco e Scilla

Il Dio marino Glauco, innamorato della ninfa Scilla, decide di ricorrere
alle arti magiche della Maga Circe. Dalla Sicilia

… con valide braccia
poscia solcando il Tirreno pervenne all'erbose colline
ed al palazzo di Circe, la figlia del Sole, ripieno
tutto di belve. La salutò nel vederla,
risultato, dicendo: "Pietà, ti scongiuro, d'un Dio!
Poiché tu sola, se degno ti sembro, mi puoi alleviare
la passione amorosa. Nessuno sa meglio di
Glauco
quanto sia grande la forza dell'erbe, che m'hanno mutato.

… non farmaco chiedo
che la ferita mi sani: non questo m'occorre; ella senta
parte del fuoco che m'arde! "Ma Circe (nessuna di lei
è meglio adatta agli amori improvvisi)…

… così gli rispose: "Faresti
meglio a seguire qualcuna che voglia te pure, infiammata
dalla medesima passione"…
ecco io stessa, una diva, la figlia del nitido Sole,
che tanto posso con carmi e pur anche con l'erbe, vorrei
essere tua. Lei sprezza che spregia e seconda chi t'ama;
e in un tratto soltanto fa' la vendetta di due".
Glauco così rispondeva alla diva che lo lusingava:
"Prima le fronde nel mar nasceranno o su l'alte montagne
l'alghe, ch'io muti, vivendo, l'amore che nutro per
Scilla".
Ne fu sdegnata la Dea, che nuocere non gli potendo
e non volendo, perché n'era presa, s'adira con quella
che l'è preposta; ed offesa per tale rifiuto d'amore,
subito trita erbacce d'orribili succhi,
e, nel tritarle, sussurra dei carmi acatei; un'azzurra
veste si mette e, tra mezzo alle belve che fannole festa,
esce dall'atrio e va verso Reggio, di fronte a Messina…

In un'insenatura, dove Scilla è solita bagnarsi, Circe infetta
le acque del mare con veleni spremuti da radici ripetendo parole
magiche.
Scilla poco dopo entra nell'acqua e subito si vede la
parte inferiore del corpo bruttata da cani ringhiosi; in seguito
viene mutata in rupe.

 

Secondo un'altra versione, Scilla subì quella trasformazione per opera di Anfitrite, gelosa della Ninfa perchè amata da Poseidone.

E di Scilla parla anche Omero nel libroXII

Omero ODISSEA

Trad. di Ippolito Pindemonte  LIBRO DODICESIMO



…Ma Circe me prese per mano, e trasse
Da parte, e a seder pose; indi, seduta
Di contra, interrogommi, ed io su tutto
La satisfeci pienamente. Allora
Tai parole sciogliea l'illustre diva:
"Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,
Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno
Ti torneranno nella mente i numi.
Alle
Sirene giungerai da prima,
Che affascìnan chïunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chïunque i lidi incautamente afferra
Delle
Sirene, e n'ode il canto, a lui
Né la sposa fedel, né i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le
Sirene sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D'ossa d'umani putrefatti corpi
E di pelli marcite, un monte s'alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mollita
Cera de' tuoi così l'orecchio tura,
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all'albero i compagni
Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;
Perché il diletto di sentir la voce
Delle
Sirene tu non perda. E dove
Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino ed i lacci.
Poiché trascorso tu sarai, due vie
Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,
Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo
Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.
  Vedrai da un lato discoscese rupi
Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba
Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.
Gl'Iddii beati nella lor favella
Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,
Trasvolarle non sanno impunemente
Né le colombe pur, che al padre Giove
Recan l'ambrosia: la polita pietra
Sempre alcuna ne fura, e della spenta
Surroga invece altra colomba il padre.
Nave non iscampò dal periglioso
Varco sin qui: ché de' navigli tutti
Le tavole del pari e i naviganti
Sen porta il vincitor flutto, e la pregna
Di mortifero foco atra procella.
Sola quell'Argo che solcava il mare,
Degli uomini pensiero e degli dèi
Trapassar valse, navigando a Colco:
E se non che Giunon, cui molto a cuore
Giasone stava, di sua man la spinse,
Quella non meno avrìan contra le vaste
Rupi cacciata i tempestosi flutti.
  Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Né su l'acuto vertice, l'estate
Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi:
Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,
S'apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar; giovane arciero
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l'incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma
Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
  Con la metà di sé nell'incavato
Speco profondo ella s'attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que' mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l'altro s'alza contrapposto scoglio
E il dardo tuo ne colpirìa la cima.
Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta
Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L'assorbe orribilmente. Or tu a
Cariddi
Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal saprìa dalla ruina estrema
Nettuno stesso dilivrarti. A
Scilla
Tienti vicino, e rapido trascorri.
Perder sei de' compagni entro la nave
Torna più assai, che perir tutti a un tempo".
  Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna
Schivare, o Circe, la fatal
Cariddi,
Respinger, dimmi il ver,
Scilla non deggio,
Che gli amici a distruggermi s'avventa?"
  "O sventurato", rispondea la diva
Dunque le pugne in mente ed i travagli
Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?
Cosa mortal credi tu
Scilla? Eterno
Credila, e duro, e faticoso, e immenso
Male, ed inespugnabile, da cui
Schermo non avvi, e cui fuggir fia ìl meglio
Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,
Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,
E tanti de' compagni un'altra volta
Ti rapirà, quante spalanca bocche.
Vola dunque sul pelago, e la madre
Cratèi, che al mondo generò tal peste,
E ritenerla, che a novella preda
Non si slanci, potrà, nel corso invoca.
  Allora incontro ti verran le belle
Spiagge della
Trinacria isola, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:
Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,
E di teste cinquanta i branchi tutti.
Non cresce, o scema, per natale o morte,
Branco; e le Dive sono i lor pastori
Faetusa e Lampezie il crin ricciute
Che partorì d'Iperïone al figlio
Ninfe leggiadre, la immortal Neera.
Come l'augusta madre ambo le ninfe
Dopo il felice parto ebbe nodrite,
A soggiornar lungi da sé mandolle
Nella Trinacria; e le paterne vacche
Dalla fronte lunata, ed i paterni
Monton lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno intatti e a voi soltanto
Calerà del ritorno? il suol nativo,
Non però senza guai, fiavi concesso.
Ma se giovenca molestaste od agna,
Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,
Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".
Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.
  Circe, non molto poi, da me rivolse
Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata
La nave, a entrarvi e a disnodar la fune
Confortava i compagni; ed i compagni
V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi
Fean co' remi nel mar spume d'argento.
La dea possente ci spedì un amico
Vento di vela gonfiator, che fido
Per l'ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che, deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo, di spingerci e guidarci
Lasciando al timonier la cura e al vento.
  Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,
Degno mi par che a tutti voi sia conto
Quel che predisse a me l'inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire in pria delle
Sirene il verde
Prato e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all'albero legate
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi ed i lacci".
  Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle
Sirene all'isola pervenne.
Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,
E l'onde assonnò un demone. I compagni
Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella nave collocarle: quindi
Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde
Co' forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n'iva
Rivoltando e premendo in fra le dita.
Né a scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché lucidissimi dall'alto
Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.
De' compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all'albero legaro
Con fune, i piè stringendomi e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.
Già, vogando di forza, eravam quanto
Corre un grido dell'uomo, alle
Sirene
Vicini. Udito il flagellar de' remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:
"O molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa che noi
Dalle labbra mandiam, voce soave;
Voce, che innonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia
Per celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".
  Cosi cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle
Sirene aggiungerci, coloro
A sé la cera dall'orecchio tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.
  Già rimanea l'isola indietro; ed ecco
Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,
E gli orecchi intronarmi alto fragore.
Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
Remi di man lor caddero, e la nave,
Che de' fidi suoi remi era tarpata,
Là immantinente s'arrestò. Ma io
Di su, di giù, per la corsìa movendo,
E con blanda favella or questo, or quello
De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco
Sin qua passati per cotanti affanni,
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando
L'infinito vigor di Polifemo
Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora
Col valor mio vi trassi, e col mio senno,
E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.
Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti
Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde
Percotete co' remi, e Giove, io spero,
Concederà dalle correnti scampo.
Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente
Questo, né l'obblïar: guida il naviglio
Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta
Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi
Getterai nell'orribile vorago".
  Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.
Se non ch'io
Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,
L'un sovra l'altro per soverchia tema
Della nave cacciassersi nel fondo.
E qui, di Circe, che vietommi l'arme,
Negletto il disamabile comando,
Io dell'arme vestìami, e con due lunghe
Nell'impavida mano aste lucenti
Salìa sul palco della nave in prua,
Attendendo colà, che l'efferata
Abitatrice dell'infame scoglio
Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:
Né, perché del ficcarli in tutto il bruno
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da parte alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo addolorati intanto
Per l'angusto sentier:
Scilla da un lato,
Dall'altro era l'orribile
Cariddi,
Che del mare inghiottia l'onde spumose.
Sempre che rigettavale, siccome
Caldaia in molto rilucente foco,
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commovéasi di dentro, ed alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,
E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna
Sabbia parea nell'imo fondo: verdi
Le guance di paura a tutti io scôrsi.
Mentre in
Cariddi tenevam le ciglia,
Una morte temendone vicina,
Sei de' compagni, i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi, e li vidi che levati in alto
Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.
Qual pescatore che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mare il corno
Con lunghissima canna, un'infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dall'onda, e palpitanti
Scagliali sul terren: non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava
E innanzi divoravali allo speco,
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,
Solcando il mar, la vista, oggetto mai
Di cotanta pietà non mi s'offerse.
 
Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia
La feconda ci apparve isola amena,
Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;
E ne giungean dall'ampie stalle a noi
I belati su l'aure ed i muggiti.
Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente
Del Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto
Siate angosciati, la sentenza udite
Del Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola schivar debba del Sole,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Circe affermava che il maggior de' guai
Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro
Ci convien dunque con la negra nave".
  Colpo tai detti fûr quasi mortale.
Né a molestarmi Euriloco in tal guisa
Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,
Perché di forze abbondi, e mai non cedi,
Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi
Contendi il toccar terra, e di non parca
Cena sul lido ristorarsi. Esigi
Che in mezzo le notturne ombre su questo
Pelago a caso erriam, benché la notte
Gravi produca disastrosi venti.
Or chi fuggir potrà l'ultimo danno
Dove repente un procelloso fiato
Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?
S'obbedisca oggi alla divina notte,
E la cena nell'isola s'appresti.
Come il dì spunti, salirem di nuovo
La nave, e nell'immensa onda entreremo".
  Questa favella con applauso accolta
Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi
Che mali un genio prepotente ordìa:
"Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,
Tutti contra ad un sol, forza mi fate.
Giurate almeno, e col più saldo giuro,
Che, se greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca uccida, o pecorella offenda:
Ma tranquilli di ciò pasteggerete,
Che in don vi porse la benigna Circe".
Quelli giuraro, e non sì tosto a fine
L'invïolabil giuro ebber condotto,
Che la nave nel porto appo una fonte
Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena
Solertemente apparecchiâr sul lido.
Paga delle vivande e de' licori
La naturale avidità pungente,
Risovvenìansi di color che
Scilla
Dalla misera nave alto rapiti
Vorossi, e li piangean, finché discese
Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.
  Già corsi avea del suo cammin due terzi
La notte e dechinavano le stelle,
Quando il cinto di nembi Olimpio Giove
Destò un gagliardo, turbinoso vento,
Che la terra coverse, e il mar di nubi,
E la notte di cielo a piombo cadde.
Ma come poi l'orocrinita Aurora
Colorò il ciel con le rosate dita,
Tirammo a terra il legno, e in cavo speco
De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi
I lor balli tessean, l'introducemmo.
Subito io tutti mi raccolsi intorno
E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda
Restanci ancor nella veloce nave.
Se non vogliam perir, lungi, vedete,
La man dal gregge e dall'armento; al Sole,
Terribil dio, che tutto vede ed ode,
Pascono i monton pingui e i bianchi tori".
Dissi; e acchetârsi i generosi petti.
Per un intero mese Austro giammai
Di spirar non restava, e poscia fiato
Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.
Finché il pan non fallì loro ed il vino,
Ubbidïenti e della vita avari,
Rispettavan l'armento. E già la nave
Nulla contenea più. Gìvano adunque,
Come il bisogno li pungea, dispersi
Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,
Con archi ed ami, o di quale altra preda
Lor venisse alle man; però che forte
Rodeali dentro l'importuna fame.
Io, dai compagni scevro, una remota
Cercai del piede solitaria piaggia,
Gli eterni a Supplicar, se alcun la via
Mi dimostrasse del ritorno, e in parte
Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,
Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai
Gli abitanti del cielo ambo le palme.
Né guari andò, che d'un tranquillo sonno
Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.
  Eurìloco frattanto un mal consiglio
Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe
Sciagure oppressi, la mia voce udite.
Tutte odïose certo ad uom le morti;
Ma nulla tanto, che il perir di fame.
Che più si tarda? Meniam via le belle
Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.
Ché se afferrar ci sarà dato i lidi
Nativi, al Sole Iperïone un ricco
Tempio illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle mura prezïosi doni.
E dov'ei, per li buoi dalla superba
Testa crucciato, sperder voglia il legno,
Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta
Isola stando, intisichir più a lungo".
  Disse: e tutti assentìano. Incontanente
Del Sol cacciate le più belle vacche
Di fronte larga e con le corna in arco,
Che dalla nave non pascean lontane,
Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,
Per difetto che avean di candid'orzo,
Tenere foglie di sublime quercia,
Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,
Le vittime sgozzaro e le scoiaro,
E, le cosce tagliatene, di zirbo
Le copriro doppiate, e i crudi brani
Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso
Vino scusasse, onde patìan disagio,
Versavan poi su i sagrifici ardenti,
E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,
Le cosce omai combuste, ed assaggiate
Le interïora, tutto l'altro in pezzi
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;
E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.
Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.
Ma vicina del tutto ancor non m'era,
Ch'io mi sentii dall'avvampate carni
Muovere incontro un odoroso vento,
E gridai, lamentando, ai numi eterni:
"O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,
Certo in un crudo e fatal sonno voi
Mi seppelliste, se doveasi intanto
Compier da cotestoro un tal misfatto".
  Nunzia non tarda dell'ucciso armento,
Lampezie al Sole andò, di lungo peplo
Coperta. Il Sole, in grande ira montato,
Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi
Tutti, immortali dèi, paghino il fio
Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,
Che le giovenche trucidarmi osaro,
Della cui vista, o ch'io per la stellata
Volta salissi, o discendessi, nuovo
Diletto ciascun dì prendea il mio core.
Colpa e pena in lor sia d'una misura:
O calerò nella magion di Pluto,
E al popol morto porterò mia luce".
  E il nimbifero Giove a lui rispose:
"Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali
Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.
Io senza indugio d'un sol tocco lieve
Del fulmine affocato il lor naviglio
Sfracellerò del negro mar nel seno".
  Queste cose Calipso un giorno udìa
Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle
La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.
  Giunto alla nave, io rampognavo or questo
De' compagni, ed or quel: ma vïolato
L'armento fu, né avea compenso il male.
Strani prodigi intanto agl'infelici
Mostravano gl'iddii: le fresche pelli
Strisciavan sul terren, muggian le incotte
Carni e le crude, agli schidoni intorno,
E de' buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del fior dell'armento ancor sei giorni
Si cibaro i colpevoli. Comparsa
La settim'alba, il turbinoso vento
Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L'albero prontamente, e dispiegate
Le bianche vele, ci mettemmo in mare.
  Di vista già della Trinacria usciti,
Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,
Quando il Saturnio sul veloce legno
Sospese in alto una cerulea nube,
Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.
La nave non correa che un tempo breve;
Poiché ratto uno stridulo Ponente,
Infurïando, imperversando, venne
Di contra e ruppe con tremenda buffa
Le due funi dell'albero, che a poppa
Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte
Nella sentina scesero. Percosse
L'alber, cadendo, al timoniere in capo,
E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò nel mar, di palombaro in guisa,
E cacciata volò dal corpo l'alma.
Ma Giove che tonato avea più volte,
Scagliò il fulmine suo contra la nave,
Che si girò, dal fulmine colpita
Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.
Tutti fuor ne cascarono i compagni,
E ad essa intorno l'ondeggiante sale,
Quai corvi, li portava; e così Giove
Il ritorno togliea loro, e la vita.
Io pel naviglio su e giù movea,
Finché gli sciolse la tempesta i fianchi
Dalla carena, che rimase inerme.
Poi la base dell'albero l'irata
Onda schiantò: ma di taurino cuoio
Rivestìalo una striscia, ed io con questa
L'albero e la carena in un legai,
E sopra mi v'assisi; e tale i venti
Esizïali mi spingean su l'onde.
Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:
Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,
Che, noiandomi forte in ver
Cariddi
Ricondur mi volea. L'intera notte
Scorsi su i flutti; e col novello Sole
Tra la grotta di
Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatal vorago,
Che in quel punto inghiottia le salse spume
Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio
M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni,
Qual vipistrello: ché né dove i piedi
Fermar, né come ascendere, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla mano i lunghi, immensi
Rami, che d'ombra ricoprìan
Cariddi.
Là dunque io m'attenea bramando sempre,
Che rigettati dall'orrendo abisso
Fosser gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un lungo desìo vennero a galla.
Nella stagion che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal foro, e per cenar s'avvìa,
Dell'onde usciro i sospirati avanzi.
Le braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,
Non lunge da que' legni, a cui m'assisi
Di sopra, e delle man remi io mi feci.
Ma degli uomini il padre e de' Celesti
Di rivedermi non permise a
Scilla
;
Ché toccata sarìami orrida morte.
Per nove dì mi trabalzava il fiotto,
E la decima notte i dèi sul lido
Mi gettâr dell'Ogigia isola, dove
Calipso alberga, la divina ninfa,
Che raccoglieami amica, e in molte guise
Mi confortava. Perché ciò ti narro?
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udìa con teco la tua casta donna,
E ciò ridir, ch'io dissi, a me non torna».

E anche Dumas durante il suo soggiorno a Messina fu affascinato dai miti dello Stretto tanto da scrivere…

“Del resto, da un istante all'altro, tutte le asperità movimentate della costa ci apparivano più visibili: i villaggi si stagliavano bianchi e nitidi sul fondo verdastro del terreno; cominciavamo a scorgere 1'antica Scilla, quel mostro dal busto di donna e con la vita cinta da cani famelici, talmente temuta dagli antichi marinai e che l'indovino Eleno aveva così tanto raccomandato a Enea di rifuggire. Per quanto ci concerneva, fummo meno prudenti dell'eroe troiano; benché, come lui, appena scampati a una tempesta. Il mare era ritornato completa­mente calmo, l'abbaiare del cani era cessato per lasciare posto al rumore delle onde che s'infrangevano contro la riva.

(Dumas, Messina la nobile, p.11)

 

                                                                                                                                                                                                          Massimo  Mastronardo

 

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