Eolo

 

     

 

Con questo nome abbiamo due grandi personaggi della mitologia, il primo era figlio di Ippote o Poseidone e di Arnea. Sposò Enarete e ne ebbe sei figli e  sei figlie, tra cui, secondo alcuni, Canace e Macareo. Dimorava nelle isole vulcaniche, le sette sorelle, presso Messina  che da lui presero il nome di Eolie e dove esercitava il potere su tutti i venti rinserrati in una caverna dunque era dio dei Vènti o meglio ne era il Re, Zeus gli aveva concesso il potere di placarli o suscitarli.  Le isole dove egli dimorava si riteneva che fossero isole galleggianti Durante il suo errare, dopo la battaglia di Troia accolse benevolmente Ulisse che era sfuggito al Ciclope Polifemo. Eolo lo trattenne circa un mese come ospite, non voleva lasciarlo andare, a seguito alle insistenze dell'eroe per riprendere il viaggio nel momento dei saluti gli donò un vento favorevole e un’otre di pelle di bue pieno di tutti i venti. Se saggiamente governati questo dovevano riportarlo direttamente a Itaca. E già si potevano scorgere i fuochi accesi dai pastori nell'isola, nella sua Itaca, allorché l'eroe si addormentò. I compagni, spinti dalla curiosità, credendo che l'otre di Eolo contenesse oro, l'aprirono e i venti ne scapparono via provocando un uragano che sospinse la nave nella direzione opposta, facendola approdare di nuovo presso Eolo. Di nuovo Ulisse chiese al Dio un vento favorevole. Eolo gli rispose di non poter fare più niente per lui, ora che gli dei avevano manifestato così apertamente la loro ostilità al suo ritorno, e credendo il suo ospite perseguitato dagli dèi lo cacciò.

Un altro mito racconta che l’altro Eolo fu re di Tessaglia, figlio di Elleno e della ninfa Orseide, fratello di Doro e di Xuto, era considerato capostipite degli elleni, gli antichi greci. Eolo fu capostipite della stirpe, degli eoli. Ebbe come filglio Sisifo che fondò la città di Corinto nel 1858. Altro figlio fu Salmoneo che guidò una colonia di Eoli verso l'Elide orientale e fondò la città di Salmonia che poi fu denominata Tiro.

Il mito di Eolo non ebbe mai culto religioso.


Odissea di Omero

Traduzione di Ippolito Pindemonte

Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto
Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,

Eolo, abitava in isola natante,
Cui tutta un muro d'infrangibil rame
E una liscia circonda eccelsa rupe.
Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,
Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse
Per nodo marital suore e fratelli,
Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro ciascun dì siedon tra il padre
Caro e l'augusta madre, ad una mensa
Di varie carca dilicate dapi.
Tutto il palagio, finché il giorno splende,
Spira fragranze, e d'armonie risuona;
Poi, caduta su l'isola la notte,
Chiudono al sonno le bramose ciglia
In traforati e attappezzati letti
Con le donne pudìche i fidi sposi.
Questo il paese fu, questo il superbo
Tetto, in cui me per un intero mese
Co' modi più gentili Eolo trattava.
Di molte cose mi chiedea: di Troia,
Del navile de' Greci, e del ritorno;
E il tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma come, giunta del partir mio l'ora,
Parole io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non che dissentir, del mio vïaggio
Pensier si tolse e cura, e della pelle
Di bue novenne appresentommi un otre,

Che imprigionava i tempestosi venti:
Poiché de' venti dispensier supremo
Fu da Giove nomato; ed a sua voglia
Stringer lor puote, o rallentare il freno.
L'otre nel fondo del naviglio avvinse
Con funicella lucida d'argento,
Che non ne uscisse la più picciol'aura;

E sol tenne di fuori un opportuno
Zefiro, cui le navi e i naviganti
Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,
Che la nostra follìa volse in disastro!
  Nove dì senza posa, e tante notti
Veleggiavamo; e già venìaci incontro
Nel decimo la patria, e omai vicini
Quei vedevam che raccendeano i fochi:

Quando me stanco, perch'io regger volli
Della nave il timon, né in mano altrui,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero
Che argento ed oro alle mie case, doni
Del generoso Ippòtade, io recassi.
"Numi!" come di sé, "dicea taluno
Rivolto al suo vicin, "tutti innamora
Costui, dovunque navigando arriva!
Molti da Troia dispogliata arredi
Riporta belli e preziosi; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vote. Inoltre questi
L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda
D'oro e d'argento la bovina pelle".
  Così prevalse il mal consiglio. L'otre
Fu preso e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiâr gli agili venti.


La subitana orribile procella
Li rapìa dalla patria e li portava
Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,
O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,
Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,
Che i compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava in Eolia il fiero turbo

Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa
Presso le navi ci adagiammo. Estinta
Del cibarsi e del ber l'innata voglia,
Io con un de' compagni, e con l'araldo
M'inviai d'Eolo alla magion superba;
E tra la dolce sposa e i figli cari
Banchettante il trovai. Sul limitare
Sedevam della porta. Alto stupore
Mostrâro i figli, e con parole alate:
"Ulisse", mi dicean, "come venìstu?

Qual t'assalì dèmone avverso? Certo
Cosa non fu da noi lasciata indietro,
Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque
Ti talentasse più, salvo giungessi".
Ed io con petto d'amarezza colmo:
"Tristi compagni, e un sonno infausto a tale
Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,
Ché il potete, tal piaga". In questa guisa
Le anime loro io raddolcir tentai.
Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:
"Via", rispose, "da questa isola, e tosto,
O degli uomini tutti il più malvagio:
Ché a me né accôr, né rimandar con doni
Lice un mortal che degli eterni è in ira.
Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".
Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,

Che de' gemiti miei tutto sonava.
… 

 Del mito di Eolo parla Pubblio Ovidio Nasone nel libro XIII delle METAMORFOSI

...E se per assurdo si potesse dubitare del mio valore,
io maggiore sarei per nobiltà: nato sono da Telamone, che agli ordini di Ercole espugnò le mura di Troia
e con la nave di Pàgase raggiunse le rive della Còlchide.
Èaco è suo padre, che rende giustizia alle ombre silenziose
laggiù dove un pesante macigno opprime Sisifo, il figlio di
Eolo.

....

EURIPIDE nella tragedia IONE

…. Tra gli Ateniesi e gli abitanti dell'Eubea, era scoppiata una tempesta di guerra: poiché si era schierato con gli Ateniesi e aveva collaborato alla

vittoria, in segno di alto onore Xuto ottenne in moglie Creusa, pur non essendo Ateniese, ma Acheo

di origine; suo padre era Eolo, che aveva come padre Zeus.

Il mito deiventa poesia con  VIRGILIO nel I Libro dell'ENEIDE

Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e i tempestosi
vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti

tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.

Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati da lor, confusi e sparsi
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi e di caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno
ne diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor umíle e supplichevol disse:
«Eolo, poi che 'l gran padre del cielo
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vènti e turbar l'onde,
gente inimica a me, mal grado mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
è già d'Italia, al cui reame aspira;
e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piú bella e piú leggiadra
è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,
viva lieto mai sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole

Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu mi dài questo scettro e questo regno;
se re può dirsi un che comandi a' vènti.
Io, tua mercé, su co' celesti a mensa
nel ciel m'assido; e co' mortali in terra
son di nembi possente e di tempeste».
  Cosí dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vènti usciro.
Avean già co' lor turbini ripieni
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron nel mare, e fin da l'imo
lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de' legni, de le sarte e de le genti,
i nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,
la buia notte, ond'era il mar coverto,
i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e sospirando disse:
  «O mille volte fortunati e mille
color che sotto Troia e nel cospetto
de' padri e de la patria ebbero in sorte
di morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo figliuol, ch'io non potessi
cader per le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla
vinto per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se d'acqua perire era il mio fato,
perché non dove Xanto o Simoenta
volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»
  Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una buffa a rincontro, che stridendo
squarciò la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,

girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne come dal cielo a cader giú.
Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;
or a questi or a quei s'apre la terra
fra due liquidi monti, ove l'arena,
non men ch'ai liti, si raggira e ferve.
  Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da l'altezza de l'onde allor celato,
che sorgea primo in alto mare altissimo -
e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile aspetto) ne le secche
tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una, che 'l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e lei girò sí che 'l suo giro stesso
le si fe' sotto e vortice e vorago,
da cui rapita, vacillante e china,
quasi stanco palèo, tre volte volta,
calossi gorgogliando, e s'affondò.
  Già per l'ondoso mar disperse e rare
le navi e i naviganti si vedevano;
già per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
già quel ch'era piú valido e piú forte
legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali aveano i fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l'antro uscito
il gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piú riposti fondi:
«Oh - disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?» E grazïoso il capo fuori
trasse de l'onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e laceri
vide i legni d'Enea; vide lo strazio
de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciò, come suo frate,
che ne fôra cagion l'ira e la froda
de l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,

e 'n tal guisa acremente li rampogna:
  «Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza me,
nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e far nel mare un sí gran moto osate?
Io vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar quest'onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro re
che questo regno e questo
tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella è sua reggia;
de la prigion de' suoi vènti non esca».
  Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,
si dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe e Triton, l'una con l'onde,
l'altro col dorso, le tre navi indietro
ritirâr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena eran sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò col tridente ed a sé trassele.
Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo lievemente, ovunque apparve,
agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.
  Come addivien sovente in un gran popolo,

allor che per discordia si tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,
quando l'aste e le faci e i sassi volano
e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se grave personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto silenzio, attentamente ascoltano,
ed al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu 'l mar disgombro, allor che umíle e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co' suoi lievi destrier volando scórselo.
Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.

Massimo Mastronardo

MITI

HOME PAGE