Scuola poetica Siciliana a Messina

Grande era l’operosità culturale nel XIII sec allorché al latini della tradizione classica si andava affiancando il volgare. Era questa non ancora una lingua e si connotava a seconda dei temi trattati, ora religiosi, ora cavallereschi, ora teologici, ora filosofici, ora scientifici. Dunque la letteratura volgare era ancora troppo varia e molteplice perché potesse ancora iniziare una vera e propria tradizione letteraria. La lingua poi non è ancora un volgare unitario in tutta la penisola, ma il dialetto adoperato da ciascuno scrittore. Il costituirsi della prima vera tradizione letteraria in Italia con piena coscienza dei suoi fini artistici e unitari è data dalla "Scuola Poetica Siciliana" -1225- 1250. Con questa definizione si suole definire il costituirsi delle prima vera scuola di poesia in Italia composta da artisti provenienti da ogni parte d’Italia, ma soprattutto meridionali, i quali vissero e composero alla scuola di Federico II e poi di suo figlio Manfredi. La scuola è detta siciliana non perché gli artisti fossero solo siciliani, ma perché la lingua utilizzata per comporre e rimare era il dialetto siciliano ed essa nacque e fiorì alla corte del Re di Sicilia(tale era il titolo regale di Federico). Questi poeti che cantarono d’amore hanno una particolarità: molti di loro erano nativi di Messina. Dunque anche dalla nostra città è partito il là alla lingua Italiana e siamo stati anche noi ad ispirare Dante alla nuova parlata Italica. Ed ecco in questo breve excursus quali furono i poeti messinesi alla corte di Federico. Secondo Dante il più grande poeta della scuola poetica siciliana fu Guido Delle Colonne, messinese e lo definisce "iudex de Messana". Federico II, "primus inter pares" amava Messina ed aveva nel sito dell'arcipeschieri i giardini reali che prediligeva, e poiché il Re amava soggiornare nella nostra città aveva fatto di Messina, oltre che di Palermo,  la culla della scuola poetica Siciliana.


 

Cielo d'Alcamo

 

Da lui deriverebbe il cognome messinese Celi, forse natio della zona di S.Miceli, Oggi S.Michele. Il "Contrasto" è un'opera di incerta attribuzione, nulla o quasi sappiamo dell'autore ed anche il suo nome è incerto, Cielo o Ciullo, Dalcamo o Dal Camo o D'Alcamo sono le versioni più comuni ma non trovano un riscontro preciso secondo alcune versioni, l'autore potrebbe essere originario della Sicilia orientale, della zona di Messina in particolare, forse era un giullare, o più verosimilmente, uno studente, colto ed esperto dei moduli lirici contemporanei e delle tecniche di composizione poetica della poesia provenzale.

 La sua opera più importante è appunto il "Contrasto"  scritto dopo il 1231, anno in cui furono coniate per la prima volta le monete imperiali dette "agostari" citate nella poesia e dopo la pubblicazione delle "costituzioni melfitane" che contengono la famosa "defensa", che compare al v. 22, e prima del 1250, anno della morte di Federico II, perché l'imperatore viene ricordato ancora in vita al verso 24: Viva lo 'mperadore, grazi'a Deo!.
  Il contrasto fu probabilmente composto a Messina tra il 1231 e il 1250, nel periodo generalmente attribuito alla scuola siciliana.
Il Contrasto è una rappresentazione "teatrale", un testo da recitare con gesti, azioni mimate, uso di oggetti ed elementi scenici, se pur scarni ed allusivi, è un'opera giullaresca ritenuta per lungo tempo di origine popolare, ma negli ultimi tempi studi più approfonditi hanno stabilito che il poeta non poteva che appartenere a una classe sociale piuttosto elevata, sia per le conoscenze storiche e culturali che si evidenziano nel componimento sia per il tipo di linguaggio, a volte colto ed elevato, con espressioni d'origine provenzale, riecheggianti modelli espressivi tipicamente cortesi.
    

 Questa composizione è, quindi, una giullarata, adatta alla recitazione anche di un solo attore: d'altronde il giullare è "un mimo che, oltre ad usare il gesto, si avvale anche della parola, e che, nella maggior parte dei casi, non si serve della scrittura per i propri testi, ma li rimanda oralmente, andando a memoria e spesso anche improvvisando", recitava da solo componimenti in cui comparivano anche più di due personaggi, indifferentemente maschili o femminili.

Il poeta dimostra finezza psicologica e si rivela attento osservatore della realtà

 

CONTRASTO

AMANTE. - Rosa fresca aulentissima c'appar inver la state,
le donne ti disiano, pulzelle e maritate:
Trajimi d'este focora se t'este a boluntare;
per te non aio abbento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia.

DONNA - Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.
Lo mar potresti arrompere, avanti, e semenare,
l'abere d'esto secolo tutto quanto assembrare,
averemi non pòteri a esto monno;
avanti li cavelli m'arritonno.

AMANTE - Se li cavelli attorniti, avanti foss'io morto;
cà in issi mi pèrdera lo solaccio e 'l diporto.
Quando ci passo e vejoti, rosa fresca de l'orto,
bono conforto donimi tutt'ore:
poniamo che s'ajunga il nostro amore.

DONNA - Ch'el nostro amore ajungasi, non boglio m'attalenti
se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti
quarda non t'aicolgano questi forti correnti:
come ti sappe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta.

AMANTE - Si i tuoi parenti tròvammi, e che mo pozzon fari?
Una difensa mettoci di dumilia agostari;
non mi troccàra pàdreto per quanto avere à 'm Bari.
Viva lo 'mperadore, grazi' a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?

DONNA - Tu me no' lasci vivere nè sera, nè maitino
donna mi son di pèrperi, d'auro massamotino;
se tanto aver donassemi, quanto à lo Saladino,
e per ajunta quanto à lo Soldano,
toccareme non pòtteri a la mano.

AMANTE - Molte sono le femmine c'anno dura la testa,
e l'omo con parabole l'àddimina e ammonesta
tanto intorno percazzala, finchè l'à in sua podesta.
Femina d'omo non si può tenere:
guardati, bella, pur de repentere.

DONNA - Ch'eo me repentèssende?  Avanti foss'io aucisa,
ca nulla bona femina per me fosse riprisa!
Aersera passastici, coremo, alla distisa.
Acquistati riposo, canzoneri:
le tue paràole a me non piaccion gueri.

AMANTE - Doi! Quante son le schiàntora che m'ai mise a lo core,
e solo pur penzànnome, la dia quanno vo fore!
Femina d'esto secolo tanto non amai ancore,
quant'amo teve, rosa invidiata;
ben credo che mi fosti distinata.

DONNA - Se destinata fosseti, caderia de l'altezze,
chè male messe fòrano in teve mie ricchezze.
Se tanto addivenissemi, tagliàrami le trezze,
e consòre m'arrenno a una magione,
avanti che m'artocchi 'n la persone.

AMANTE - Se tu consòre arrènneti, donna col viso cleri,
a lo mostèro vennoci e rènnomi confleri;
per tanta prova vincere, faràilo volontieri.
Con teco stao la sera e lo maitino;
besogn'è ch'io ti tenga al meo domino.

DONNA - Oimè, tapina misera, com'ao reo distinato!
Geso Cristo l'altissimo, del tutto m'è airato;
concepìstimi a abbattere in omo blestiemato!
Cerca la terra, ch'este granne assai,
chiù bella di me troverai.

AMANTE
- Cercat'aio Calabria, Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa, e Soria,
Lamagna e Babilonia, e tutta Barberia:
donna non ci trovai tanto cortese,
perchè sovrana di meve te prese.

 

 

Guido delle Colonne

sommo poeta tra i federciani ....(Dante De Vulgari Eloquentia)

 

    Di Guido delle Colonne abbiamo più certezze anagrafiche. Egli era nato a Messina circa nel 1210 (morì dopo il 1287). La sua professione ufficiale era quella di Notaro e funzionario alla corte di Federico II, le sue poesie sono notevoli per la raffinatezza intellettuale e retorica e per i riferimenti a nozioni scientifiche e filosofiche. Restano di lui cinque canzoni che sperimentano i registri topici della poesia siciliana. Non hanno titolo e si distinguono  dal primo verso. La più celebre inizia: "Amor che l'aigua per lo foco lassi", posta dalla critica come antecedente alla guinizelliana "Al cor gentile". Si tratta di un esercizio lirico teso e raffinato, che porta a esiti estremi di rarefazione intellettuale e concentrazione retorica dei temi tradizionali.

    Fu ammirato da Dante nel De Vulgari eloquentia come poeta sommo tra i federiciani e sommo tra i poeti Siciliani. Tale ammirazione era fondata soprattutto sull'abilità tecnica, sulla capacità stilistica di questo poeta che fu rimatore in volgare e prosatore in latino.

Gli è attribuita la "Historia destructionis Troiae", traduzione, o meglio libero rifacimento in latino del Roman de Troie, cronaca delle mitiche vicende troiane composta in francese, a metà del XII secolo, da Benoit de Sainte-Maure. Caso più unico che raro di traduzione in latino di un modello volgare, l’Historia di Guido, che conobbe un’enorme fortuna lungo tutto il Medioevo, agì in profondità, anche attraverso i suoi volgarizzamenti trecenteschi, sulla formazione della nostra prosa romanzesca e storiografica.

Ed ecco le sue poesie:

 

Amor, che lungiamente m'hai menato

Amor, che lungiamente m'ài menato

Amor, che lungiamente m'ài menato

a freno stretto senza riposanza,

alarga le toi retine, in pietanza,

chè soperchianza - m'a vinto e stancato;

c'ò più durato - ch'eo non ò possanza,

per voi, madonna, a cui porto lianza

più che non fa assessino asorcuitato,

che si lassa morir per sua credanza.

Ben este affanno dilittoso amare,

e dolze pena ben si pò chiamare;

ma voi, madonna, de la mia travaglia,

ca sì mi squaglia, - prenda voi merzide,

che ben è dolze mal, se no m'auzide.

Oi dolze ciera co sguardo soavi,

più bella d'altra che sia in vostra terra,

trajete lo meo core ormai di guerra,

che per voi erra - e gran trataglia nd' avi:

ca si gran travi - poco ferro serra,

e poca pioggia grande vento aterra,

però, madonna, non vi 'ncresca gravi,

s'Amor vi sforza, c'ogni cosa inserra;

chè certa no gli è troppo disinore

quand'omo è vinto da un suo megliore,

e tanto più da Amor che vince tutto.

Però non dutto - c'Amor non vi dismova

saggio guerreri vince guerra e prova.

Non dico c'a la vostra gran belleza

orgoglio non convegna e stiavi beni,

c'a bella donna orgoglio ben conveni,

che si manteni - in pregio ed in grandeza.

Troppa altereza - è quella che sconveni;

di grande orgoglio mai ben non aveni.

Però, madonna, la vostra dureza

convertasi in pietanza e si rinfreni;

non si distenda tanto ch'io ne pera.

Lo sole è alto, si face lumera,

e via più quanto 'n altura pare:

vostro orgogliare, - per zo, e vostra alteze

fac[i]ami pro' e tornimi in dolceze.

E' allumo dentro e sforzo in far semblanza

di non mostrar zo che lo meo cor senti.

Oi quant'è dura pena al cor dolenti

stare tacenti - e non far dimostranza!

Chè la pesanza - a la ciera consenti,

e fanno vista di lor portamenti,

cosi son volentieri 'n acordanza,

la cera co lo core insembramenti.

Forza di senno è quella che soverchia

ardir di core, asconde ed incoverchia.

Ben è gran senno, chi lo pote fare,

saver celare - ed essere segnore

de lo suo core quand'este 'n errore.

Amor fa disviare li più saggi,

e chi più ama a pena à in sè misura;

più folle è quello che più si 'nnamura.

Amor non cura - di far suoi dannaggi,

ca li coraggi - mette in tal calura,

che non pò rifreddare per freddura.

Gli occhi a lo core sono li messaggi

de' lor cominciamenti per natura.

Dunque, madonna, gli occhi e lo meo core

avete in vostra man dentro e di fore,

ch'Amor mi sbatte e smena che no abento,

sì come vento - smena nave in onda.

Voi siete meo pennel che non affonda.

 

.....

 

Ancor che l'aigua per lo foco lassi

Ancor che l'aigua per lo foco lassi

Ancor che l'aigua per lo foco lassi

la sua grande freddura

non cangeria natura

s'alcun vasello in mezzo non vi stassi;

anzi averria senza lunga dimura

che lo foco astutassi,

o che l'aigua seccassi;

ma per lo mezzo l'uno e l'autra dura.

Cusì, gentil criatura,

in me à mostrato Amore

l'ardente suo valore:

che senza Amore er'aigua fredda e ghiaccia,

ma Amor m'à sì allumato

di foco che m'abraccia,

ch'eo fora consumato,

se voi, donna sovrana,

non fustici mezzana

infra l'Amore e meve,

ca fa lo foco nascere di neve.

Immagine di neve si pò diri

omo che no à sentore

d'amoroso calore:

ancor sia vivo, non si sa sbaudiri.

Amore è uno spirito d'ardore,

che non si pò vediri,

ma sol per li sospiri

si fa sentire in quello ch'è amadore.

Cusì, donna d'aunore,

lo meo gran sospirare

vi por[r]ia certa fare

de l'amorosa flamma, und'eo so involto;

e non so com'eo duro,

sì m'ave preso e tolto;

ma parm' esser siguro

che molti altri amanti,

per amor tutti quanti,

funo perduti a morti,

che non amaro quant'eo, nè sì forti.

Eo v'amo tanto, che mille fiate

in un'or mi s'arranca

lo spirito che manca,

pensando, donna, la vostra beltate.

E lo disio c'ò lo cor m'abranca,

crescemi volontate,

mettemi 'n tempestate

ogni penseri, chè mai non si stanca.

O colorita e blanca

gioia, de lo meo bene

speranza mi mantene;

e s'eo languisco non posso morire,

ca, mentre viva sete,

eo non por[r]ia fallire,

ancor che fame e sete

lo corpo meo tormenti;

ma, sol ch'eo tegna menti

vostra gaia persona,

obbrio la morte, tal forza mi dona.

Eo non credo sia quel[lo] ch'avia,

lo spirito che porto,

ched eo fora già morto,

tant'ò passato male tuttavia;

lo spirito chi aggio, und'eo mi sporto,

credo lo vostro sia,

che nel meo petto stia

e abiti con meco in gioi e diporto.

Or mi son bene accorto,

quando da voi mi venni,

che, quando mente tenni

vostro amoroso viso netto e chiaro,

li vostri occhi piagenti

allora m'addobraro,

che mi tennero menti

e diedermi nascoso

uno spirto amoroso,

ch'assai mi fa più amare

che no[n] amò null'altro, ciò mi pare.

La calamita, contano i saccenti

che trar[r]e non por[r]ia

lo ferro per maestria,

se no che l'aire in mezzo lu consenti;

ancor che calamita petra sia,

l'altre petre neenti

non son cusì potenti

a traier, perchè non n'àno bailìa.

Così, madonna mia,

l'Amor s'è apperceputo

che non m'avria potuto

traer a sè, se non fusse per vui.

E sì son donne assai,

m'àno nulla per cui

eo mi movesse mai,

se non per voi, piagente,

in cui è fermamente

la forza e la vertuti.

Addonque prego l'Amor che m'aiuti.

 

.....

 

La mia gran pena e lo gravoso affanno

 

La mia gran pena e lo gravoso affanno

La mia gran pena e lo gravoso af[f]anno,

c'ò lungiamente per amor patuto,

madonna lo m'à 'n gioia ritornato;

pensando l'avenente di mio danno,

in sua merze[de] m'ave riceputo

e lo sofrire mal m'à meritato:

ch'ella m'à dato - tanto bene avire,

che lo sofrire - molta malenanza

agi' ubriato, e vivo in allegranza.

Allegro son ca tale segnoria

agio acquistata, per mal soferire,

in quella che d'amar non vao cessando.

Certo a gran torto lo mal blasmeria,

chè per un male agio visto avenire

poco di bene andare amegliorando,

ed atardando - per molto adastiare

un grand'af[f]are - tornare a neiente.

Chi vole amar, dev' essere ubidente.

Ubidente son stato tut[t]avia,

ed ò servuto adesso co leanza

a la sovrana di conoscimento,

quella che lo meo core distringìa

ed ora in gioia d'amore mi 'navanza.

Soferendo agio avuto compimento,

e per un cento - m'ave più di savore

lo ben c'Amore - mi face sentire

per lo gran mal che m'à fatto sofrire.

Se madona m'à fatto sof[e]rire

per gioia d'amore avere compimento,

pene e travaglia ben m'à meritato;

poi ch'a lei piace, a me ben de' piacire,

che nd'agio avuto tanto valimento:

sovr'ogne amante m'ave più 'norato,

c'agio aquistato - d'amar la più sovrana:

chè, se Morgana - fosse infra la gente,

inver madonna non par[r]ia neiente.

Neiente vale amor sanza penare:

chi vole amar, conviene mal patire,

onde mille mercè n'agia lo male

che m'a[ve] fatto in tanto ben montare,

ch'io non agio infra la gente ardire

di dir la gioia ove il mi' core sale.

Or dunque vale - meglio poco avire,

che ben sentire - troppo a la stagione:

per troppo ben diventa omo fellone.

 

.....

 

Gioiosamente Canto

Gioiosamente canto
e vivo in allegranza,
ca per la vostr' amanza,
madonna, gran gioio sento.
S'eo travagliai cotanto,
or aggio riposanza:
ben aia disianza
che vene a compimento
ca tutto mal talento - torna in gioi,
quandunqua l'allegranza ven dipoi;
und'eo m'allegro di grande ardimento:
un giorno vene, che val più di cento.

Ben passa rose e fiore
la vostra fresca cera,
lucente più che spera;
e la bocca aulitosa
più rende aulente aulore
che non fa d'una fera
c'ha nome la pantera,
che 'n India nasce ed usa.
Sovr'ogn'agua, amorosa - donna, sete
fontana che m'ha tolta ognunqua sete,
per ch'eo son vostro più leale e fino
che non è al suo signore l'assessino.

Come fontana piena,
che spande tutta quanta,
così lo meo cor canta,
sì fortemente abonda
della gran gioi che mena,
per voi, madonna, spanta,
che certamente è tanta,
non ha dove s'asconda.
E' più c'augello in fronda - so' gioioso,
e bene posso cantar più amoroso
che non canta già mai null'altro amante
uso di bene amare oltrapassante.

Ben mi deggio allegrare
d'Amore che 'mprimamente
restrinse la mia mente
l'amar voi, donna fina;
ma più deggio laudare
voi, donna caunoscente,
donde lo meo cor sente
lo gioi che mai non fina.
Ca se tutta Messina - fosse mia,
senza voi, donna, nente mi saria:
quando con voi al sol mi sto, avvenente,
ogn'altra gioi mi pare che sia nente.

La vostra gran bieltate
m'ha fatto, donna, amare,
e lo vostro ben fare
m'ha fatto cantadore:
ca, s'eo canto la state,
quando la fiore apare,
non poria ubriare
di cantar la fred(d)ore.
Così mi tene Amore - corgaudente,
ché voi siete la mia donna valente.
Sollazzo e gioco mai non vene mino
così v'adoro como servo e 'nchino.

 

 

 

Odo delle Colonne

Odo delle Colonne apparteneva forse alla stessa famiglia di Guido. Fu tra i primi rimatori della scuola federiciana, ha lasciato due componimenti: la canzone “Distretto core e amoroso”, che svolge il tema della segretezza amorosa e "Oi lassa 'nnamorata" che è il lamento in tono popolareggiante di una fanciulla abbandonata. L'attribuzione di quest’ultima però non è certa

 

Distretto core e amoroso

Gioioso mi fa cantare;
e certo s'io son pensuso,
non è da maravigliare:
c'Amor m'à usato a tal uso
che m'à sì preso la voglia,
che 'l disusare m'è doglia
vostro piacere amoruso.
L'amoroso piacimento
che mi donava allegranza,
vegio che reo parlamento
me n'à divisa speranza.
Ond'io languisco e tormento
per [la] fina disianza,
ca per lunga dimoranza
troppo m'adastia talento.
Lo pensoso adastiamento
degiate, donna, allegrare,
per ira e isplacimento
d'invidïoso parlare,
e dare confortamento
a lu leali amadori,
sì che li rei parladori
n'agiano sconfortamento.
Sconfortamento n'avrano,
poi comandato m'avete
ch'io mostri tal viso vano,
che voi, bella, conoscete;
e co [quello] crederano
ch'io ci agia mia diletanza,
e perderanno credanza
del falso dire che fano.
Fannomi noia e pesanza
di voi, mia vita piagente,
per mantener loro usanza,
la noiosa e falsa gente.
Ed io com'auro in bilanza
vi son leale, sovrana
fiore d'ogni cristiana,
per cui lo cor si 'navanza.

 

 

 

Stefano Protonotaro

 

Di Stefano Protonotaro sappiamo che anche egli nacque a Messina. Egli è ricordato in un documento del 1261 e in un altro (postumo) del 1301. Attendibile è secondo alcuni la sua identificazione con Stefano da Messina.

Di Stefano Protonotaro restano tre canzoni, una delle quali "Per meu cori alligrari" ha importanza anche storica e linguistica perché è il solo testo siciliano giuntoci nella forma non toscaneggiata, pervenutoci quindi nella sua veste linguistica originaria, e cioè in siciliano antico, o meglio, in "siciliano illustre" o letterario, spesso infatti   le poesie dei Siciliani, sono giunte a noi attraverso trascrizioni di copisti toscani, che ne hanno adattato le parole alla propria pronunzia e al proprio uso linguistico.  Una canzone, un tempo attribuita a lui ora si tende ad  attribuirla a Pier della Vigna, si tratta di "Amor, da cui move tuttora e vene". Questo componimento di incerta paternità si caratterizza per l'uso dell'enjambement e per la presenza di immagini tratte dai bestiari.

 Stefano da Messina, tradusse dal greco in latino due trattati di astronomia arabi che dedicò a Re Manfredi. Da Messina, è forse da identificare con un personaggio nominato in un documento del 1261, e, come già morto, in un altro del 1301.

Per il testo clicca qui

 

Frammento di una delle sue poesie

Pir meu cori alligrari

Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senxza alligranza e joi d'amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri ;
e quandu l'omu ha rasuni di diri,
ben di' cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri :
dunca ben di' cantar onni amaduri.

E si pir ben amari
cantau jujusamenti
omu chi avissi in alcun tempu amatu,
ben lu diviria fari
plui dilittusamenti
eu, chi son di tal donna innamurati,
dundi è dulci placiri,
preju e valenza e jujusu pariri
e di billizzi cutant'abundanza
chi illu m'è pir simblanza,
quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
chi fa la tigra in illu miraturi ;

chi si vidi livari
multu crudilimenti
sua nuritura, chi ill'ha nutricatu :
e sì bonu li pari
mirarsi dulcimenti
dintru unu speclu chi li esti amustratu,
chi l'ublïa siguiri.
Cusì m'è dulci mia donna vidiri :
ca 'n lei guardandu mettu in ublïianza
tutta autra mia intindanza,
sì che istanti mi feri sou amuri
d'un colpu chi inavanza tutisuri.

Di chi eu potia sanari
multu leggeramenti,
sulu chi fussi a la mia donna a gratu
meu sirviri e pinari;
m'eu duttu fortimenti
chi, quandu si rimembra di sou statu,
nun li dia displaciri.
Ma si quistu putissi adiviniri,
ch'Amori la ferissi di la lanza
che mi fer'e mi lanza,
ben crederia guarir di mei doluri,
ca sintiramu engualimenti arduri.

Purrïami laudari
d'Amori bonamenti
com'omu da lui beni ammiritatu;
ma beni è da blasmari
Amur virasimenti
quandu illu dà favur da l'unu latu
e l'autru fa languiri:
chi si l'amanti nun sa suffiriri,
disia d'amari e perdi sua speranza.
Ma eu suffru in usanza,
ca ho vistu adess'a bon suffirituri
vinciri prova et acquistari unuri.

E si pir suffriri
ni per amar lïalmenti e timiri
omu acquistau d'amur gran beninanza,
digiu avir confurtanza
eu, chi amu e timu e servivi a tutturi

 

 

Jacopo da Lentini

 

Nella rassegna degli artisti della scuola poetica siciliana nati a Messina inserisco anche il natìo di Lentini forse davvero il più grande poeta, primo e indiscusso iniziatore della Scuola, che tanto farà parlare di sé. Non è questa una forzatura poiché i limiti geografici della nostra provincia erano talmente vasti da arrivare nel versante occidentale fino a Cefalù e in quello orientale nella lontana Lentini, nella cosiddetta Valle del Demone, quindi egli è da considerarsi messinese a tutti gli effetti.

Vedesi anche  Alaimo da Lentini altro lentinese famoso governatore della città durante i Vespri che portò Messina alla vittoria contro i francesi. Da sempre nel medioevo Messina e Lentini vivevano dello stesso pane. Lentini era il punto finale di questa nostra immensa provincia. 

Jacopo da Lentini è dunque il più antico poeta siciliano, inventore del sonetto, nato a Lentini alla fine del XII secolo e morto fra il 1246 e il 1250. Fu notaio imperiale di Federico II, perciò fu detto per antonomasia il "Notaro", i suoi atti notarili sono datati tra il 1233 e il 1240.I contemporanei ebbero per lui grande venerazione, e Dante stesso, pur contrapponendo a Jacopo e a Guittone d'Arezzo lo cita nel "De vulgari eloquentia"(1,12) come esempio di limpido e ornato stile soprattutto nella canzone "Per fino amore vo' sì lietamente".

E' ritenuto, a cominciare dallo stesso Dante, il caposcuola, cioè il maestro e il rappresentante più insigne dei poeti siciliani. Avendo scritto le sue liriche fra il 1233 e il 1240, si attribuisce a questo periodo l'inizio della scuola dei poeti siciliani. Di Jacopo ci restano una quarantina di componimenti: numerose le canzoni, di varia struttura, talora unissonaus, al modo provenzale, cioè con rime costanti.

A Jacopo va, altresì, attribuita l'istituzione della forma metrica del sonetto, che ormai si fa risalire a una stanza di canzone isolata, anziché, come vorrebbe una teoria meno accreditata, alla fusione di due strambotti.

I suoi temi si raccolgono intorno a un sentimento amoroso cantato con vaga freschezza, con un gusto musicale limpido e sorgivo, come nel sonetto "Meravigliosamente, pur nelle reminiscenze e nelle ripetizioni di moduli e strutture provenzali.

Così, se il famoso sonetto "Amore è un desio che ven da core", può essere considerato essenzialmente una dichiarazione di poetica nell'ambito di una derivazione provenzale, altrove Jacopo sa trovare più personali accenti per il suo trepido e gioioso canto d'amore, si veda in particolare il sonetto "Io m'agio posto in core a Dio servire".

 

Meravigliosa-mente
Meravigliosa-mente / un amor mi distringe / e mi tene ad ogn'ora. / Com'om che pone mente / in altro exemplo pinge / la simile pintura, / così, bella, facc'eo, / che 'nfra lo core meo / porto la tua figura. / In cor par ch'eo vi porti, / pinta come parete, / e non pare difore. / O Deo, co' mi par forte / non so se lo sapete, / con' v'amo di bon core; / ch'eo son sì vergognoso / che pur vi guardo ascoso / e non vi mostro amore. / Avendo gran disio / dipinsi una pintura, / bella, voi simigliante, / e quando voi non vio / guardo 'n quella figura, / par ch'eo v'aggia davante: / come quello che crede / salvarsi per sua fede, / ancor non veggia inante. / Al cor m'ard'una doglia, / com'om che ten lo foco / a lo suo seno ascoso, / e quando più lo 'nvoglia, / allora arde più loco / e non pò star incluso: / similemente eo ardo / quando pass'e non guardo / a voi, vis'amoroso. / S'eo guardo, quando passo, / inver' voi no mi giro, / bella, per risguardare; / andando, ad ogni passo / getto uno gran sospiro / ca facemi ancosciare; / e certo bene ancoscio, / c'a pena mi conoscio, / tanto bella mi pare. / Assai v'aggio laudato, / madonna, in tutte parti, / di bellezze c'avete. / Non so se v'è contato / ch'eo lo faccia per arti, / che voi pur v'ascondete: /sacciatelo per singa / zo ch'eo no dico a linga, / quando voi mi vedite. / Canzonetta novella, / va' canta nova cosa; / lèvati da maitino / davanti a la più bella, / fiore d'ogn'amorosa, / bionda più c'auro fino: / «Lo vostro amor, ch'è caro, / donatelo al Notaro / ch'è nato da Lentino».

Massimo Mastronardo

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